mercoledì 8 dicembre 2010

'u golpe


a cento passi da me casa

… in via Etnea, a casa di Pippo Calderone, i capi di cosa nostra stavano in riunione. C'erano Luciano Liggio, Masino Buscetta, Totò Greco Cicchiteddu. Ogni tanto veniva Binnu Provenzano col treno da Palermo, sei ore di viaggio, perché non aveva i soldi per la macchina e perché non sapeva guidare. Venti giorni di riunioni a cui partecipavano i mafiosi più mafiosi che andavano e venivano da Palerrmo, Caltanissetta e tante altre province. Venti giorni di riunioni, ma non troppe perché c'era la Coppa del Mondo Rimet 1970, in Messico, e i mafiosi volevano vedere le partite. A trenta passi dalla parrocchia di Santa Maria della Mercede, dove noi rigiocavamo Italia Svezia, uno a zero, con il goal di Domenghini, che però era Iaffiu, ma noi lo chiamavamo Domenghini, perché il goal lo rifaceva preciso preciso. Avevamo sette, otto, nove, dieci anni. A un passo dalla casa di Iaffiu Domenghini, dove suo padre era il portiere. Il portiere del palazzo dove c'era l'appartamento di Pippo Calderone. A zero passi, u golpe. Perché di questo discutevano nelle riunioni tra una partita e l'altra, se mandare i picciotti ad occupare le prefetture e imporre nuovi prefetti. Così aveva proposto a cosa nostra Junio Valerio Borghese attraverso il mafiosissimo Giuseppe Di Cristina, dipendente dell'EMS, l'Ente Minerario Siciliano, cioè l'ENI dell'isola, capo della famiglia di Riesi, in provincia di Caltanissetta. Se qualcuno avesse fatto resistenza, i mafiosi – che avrebbero dovuto portare per l'occasione una fascia di riconoscimento al braccio – lo avrebbero dovuto immediatamente arrestare. A Pippo Calderone venne un colpo: “Arrestare a chi? Noi, i mafiosi, metterci a fare gli arresti. Nuiautri cose 'i sbiri 'un ni facemu! Omicidi, se è il caso, i facemu, ma arresti...” Era scandalizzato lo zio Pippo, mentre a cento passi, in via Costanzo, a casa mia c'era ospite Maria, la cugina di mio padre, che veniva dal paese e si doveva fare l'opirazione. Però era contenta Maria, perché suo marito lo stavano assumendo alla nuova raffineria che avrebbe dovuto sorgere a Marina di Melilli. Era una cosa che non era ancora ufficiale. L'onorevole Raciti gli aveva promesso il posto. Il fatto era che i Cameli di Genova, da armatori che erano, avevano deciso di convertirsi in raffinatori di petrolio e avevano acquisito una vecchia licenza inutilizzata dagli anni 50 e stavano cercando un posto dove insediarla sta benedetta fabbrica. Il problema era che questa raffineria l'avevano rifiutata da diverse parti: a Sestri Levante, a Ravenna, a San Vito Lo Capo. Stavano riuscendo quasi a farla all'oasi di Vendicari se quei rompicoglioni degli ambientalisti ante litteram non avessero fatto il diavolo a quattro. Il comune di Noto e pure i sindacati la volevano a tutti i costi nel loro territorio perché sarebbe stato lo sviluppo dall'arretratezza così finalmente pure la passscrrrria del basssscrrrocco abrebbe avuto la sua indussssrrriia; eppure la situazione era in stallo. C'era bisogno almeno di una trentina di autorizzazioni per insediare una raffineria in un'oasi naturale. Cose da pazzi, ripetevano i Cameli. L'Italia è veramente sull'orlo di un disastro sociale e politico. Addirittura al governo ci stanno pure i socialisti e il parlamento sta per approvare lo statuto dei lavoratori. Ma dove vogliamo arrivare! Di questo discutevano il 12 aprile dell'anno precedente i Cameli con il principe Junio Valerio Borghese a Genova, in una villa a picco sul mare in via Santa Chiara, 39, la casa dell'industriale Guido Canale. Ma dove vogliamo arrivare! E' il momento di fare u golpe. Erano rimasti daccordo così i Cameli con Junio Valerio Borghese: loro come armatori avrebbero messo a disposizione, quando sarebbe arrivata l'ora x, le loro navi per il trasbordo alle Eolie e in Sardegna degli avversari politici rastrellati dai mafiosi e dai carabinieri golpisti. Così dicevano i Cameli proprio in quei giorni che Maria aspettava di farsi l'opirazione a casa mia e la situazione per la costruzione della raffineria era in stallo. Poi Cameli viene a parlare con l'assessore Raciti e con tutti i politici dell'arco costituzionale siciliano e in meno di cento giorni ottiene tutti i nulla osta che servono per costruire questa raffineria a Marina di Melilli. Il problema era che a Marina di Melilli, dove doveva sorgere questa mega raffineria, c'era... Marina di Melilli; le case di Marina di Melilli, i bambini di Marina di Melilli, le donne incinte di Marina di Melilli; i vecchi di Marina di Melilli... E poi c'era la legge che vietava assolutamente di costruire impianti inquinanti a ridosso dei centri abitati. Quella raffineria era proprio un abuso. Cose da pazzi!, pensavano i Cameli. Ma dove vogliamo arrivare, vogliamo fare come in Cile che è diventato uno stato comunista? E allora ci pensa Raciti e tutto il consiglio d'amministrazione dell'Area di Sviluppo Industriale di Siracusa che approva una variante del piano regolatore rendendo legittima la raffineria e trasforma in abusivo l'intero paese di Marina di Melilli che deve a questo punto essere raso al suolo. U golpe, hanno pensato gli abitanti del paesino della costa ionica che non sapevano dove caspita avrebbero dovuto trasferirsi. Finalmente, pensava Maria mentre aspettava a casa mia di farsi l'opirazione. Poi si trovò il foglio con le cifre che Cameli e il suo socio Garrone hanno pagato a Raciti e a tutto l'arco costituzionale siciliano, compresi i comunisti, per fare u golpe a Marina di Melilli. Compreso l'Ora, il glorioso giornale di Palermo dove lavorava Mauro De Mauro. Che nei giorni de “u golpe a cento passi da me casa” intervistava Graziano Verzotto, plenipotenziario democristiano a Catania e nel siracusano fin dal dopoguerra, potentissimo presidente dell'EMS, l'ENI siciliana, compare d'anello insieme allo zio Pippo Calderone del suo dipendente mafiosissimo Giuseppe Di Cristina. Lo intervistava perché in quei mesi in Italia e in Sicilia si stava giocando la partita del petrolio, che significava “u golpe mondiale”, e un pezzo de “u golpe mondiale” si stava giocando a cento passi da me casa, nello stesso porticato dove Iaffio Domenghini rifaceva il goal di Italia Svezia preciso preciso. De Mauro lavorava in quei giorni per Verzotto e lo aiutava nella sua battaglia contro Cefis il quale si opponeva alla realizzazione del metanodotto che avrebbe dovuto unire la Sicilia all'Algeria. Verzotto riferiva al magistrato Calìa che aveva riaperto il caso dell'attentato a Enrico Mattei che “l'Eni presieduto da Cefis si opponeva alla realizzazione del metanodotto progettato dall'Ente Minerario Siciliano anche allo scopo di non perdere il monopolio sul metano. Il metano definito come la Zecca dell'Eni, era infatti un imponente strumento di autofinanziamento per l'ente petrolifero nazionale e, quindi, di raccolta di risorse per il finanziamento della politica”. Per di più, in quegli stessi mesi d'estate 1970 Mauro De Mauro indagava sulla morte di Mattei per conto di Francesco Rosi che stava per realizzare il suo celeberrimo film. A una sua amica incontrata in quei giorni De Mauro diceva di essere sul punto di rivelare qualcosa in grado di far saltare l'Italia. Anche in questo caso la fonte di Mauro De Mauro era il senatore Graziano Verzotto che soltanto all'utimo momento aveva declinato l'invito di Enrico Mattei di accompagnarlo nel suo ultimo volo che avrebbe portato il suo Morane Saulnier ad esplodere sui cieli di Bascapé. Il Morane Saulnier manomesso all'aeroporto catanese di Fontanarossa. Da chi? Pare che tutto il mondo avesse interesse che quell'aereo saltasse in aria e quell'attentato avrebbe potuto essere organizzato ovunque. Ma fu a Catania che venne piazzato l'esplosivo in un vano dietro la cloche. E' stato necessario eludere sorveglianza, distrarre il pilota, camuffare assassini per ufficiali dell'aeronautica. C'è stato bisogno di un buon controllo del territorio. E a Catania il territorio lo controllava cosa nostra della famiglia del co-compare d'anello del senatore Verzotto al matrimonio di Di Cristina, lo zio Pippo Calderone. Il co-compare senatore Verzotto portò in giro per Catania il pilota di Mattei. Di Cristina, da molti, venne accusato di aver organizzato la manomissione dell'aereo. De Mauro venne fatto sparire dai mafiosi di cosa nostra riuniti per discutere de “u golpe” a cento passi da me casa. Poi, dopo la morte bianca di De Mauro, due mesi dopo, a settembre, viene trovato un foglio dentro un cassetto chiuso della sua scrivania a l'Ora con un appunto manoscritto: “golpe continuato”.

Il marito della cugina Maria, ammalato di tumore ai polmoni per l'inquinamento dovuto al lavoro alla raffineria, morì nel 1985 a bordo dell'ambulanza rimasta bloccata nell'immenso ingorgo causato dal panico della popolazione di Augusta, Melilli e Priolo per lo scoppio di un'altra raffineria, l'Icam. Migliaia, migliaia e migliaia di persone si riversarono nelle strade per paura di una nube tossica dopo aver visto le fiamme arrivare a seicento metri d'altezza. Una donna alla guida di una Mercedes morì d'infarto sul ponte di Augusta. L'unico che collegava alla terraferma. E bloccò in una galera, possibile camera a gas a cielo aperto, gli abitanti dell'isola in fuga. Era la sorella di Raciti, il presidente della Regione che aveva preso i soldi per fare u golpe di Marina di Melilli.
Sull'ambulanza imprigionata dalla sorella di Raciti, moriva il marito della cugina Maria.
Io avevo poco più di vent'anni e non capivo perché mi trovavo nel cuore dell'apocalisse.

P.S. : non tutto è vero in questo racconto. Il marito della cugina Maria me lo sono inventato. Il morto nell'ambulanza non era lui.

lunedì 30 agosto 2010

Dice il Giorno, nel 1973

Il Giorno. Un articolo del 1973, del 14 gennaio, che sembra la descrizione dell'apocalisse. Dice che Catania va in rovina con furore. Dice che la città, al primo impatto, ti accoglie per strade disselciate dove la sporcizia è impressionante e sembra crescere di minuto in minuto. Dice che la viabilità è un groviglio di interruzioni dovute ad opere pubbliche incominciate e lasciate a metà. Dice che il disordine edilizio, spaventoso appare subito evidente per i molti palazzi rimasti bloccati nelle loro impalcature che stanno marcendo, abbandonate da mesi. Dice che lungo la litoranea i grattacieli si affacciano su un'arteria moderna dove le fognature sono inservibili perché intasate dalle immondizie. Dice che carogne di cani e carcasse di auto cui hanno smontato lo smontabile occupano lunghi tratti del marciapiede a mare. Dice che cartelli segnaletici sono caduti invadendo la sede stradale e nessuno si è sognato di toglierli. Dice che l'energia elettrica va e viene di continuo. Dice che l'acqua potabile da anni fa regolari vacanze estive lasciando la città quasi all'asciutto. Dice che la programmazione industriale, dopo avere installato un modesto gruppo di complessi improduttivi, da sempre è paralizzata. Dice che l'agricoltura estensiva è in crisi. Dice che il commercio, grande e piccolo ristagna da anni. Dice che i coltivatori di agrumi piangono amare lacrime sulla concorrenza spietata di paesi come la Spagna, Israele, il Nord Africa e la stessa California che ha portato il settore ai più bassi indici di esportazione di questi ultimi anni. Eppure siamo nella città che un tempo si proclamava la "Milano del Sud", dice. La città che è da sempre considerata la più potente dell'isola, dice. Dice che il catanese è stato una fabbrica di soldi, dice, che li ha prodotti in ogni maniera, dice, commerciando, vendendo, acquistando e rivendendo, trattando, costruendo, arrangiandosi. Però, dice, che Catania, dice nel 1973, dice, in questi ultimi anni ha cominciato a girare a vuoto. Dice che si è ritrovata sporca, arrogante, imbrogliona, disordinata e violenta. Dice che lo scippo è il re dei reati cittadini; dice che la rapina a banche, uffici postali, banchi del lotto è un fatto quotidiano; dice che il furto di auto tocca le cinquanta unità giornaliere; dice che il contrabbando di sigarette è intenso, dice. Dice che i furti in appartamenti sono all'ordine del giorno. E la prostituzione prospera, dice - unico esempio italiano - in un ghetto squallido tra le stradine del quartiere di San Berillo vecchio risparmiato dalla grande operazione di risanamento che aveva portato alla creazione del modernissimo corso Sicilia. Dice che del gruppo originario del quartiere, costituito da trentamila persone, solo cinquemila hanno resistito asserragliate in queste case cadenti, le facciate quasi combacianti, rivoli d'acqua che scorrono dai muri come un maleodorante sudore, dice. Dice che in questo ghetto, a cinquanta metri dal "corso delle banche" vivono seicento prostitute in simbiosi, dice, con omosessuali, ruffiani, ladri, ricettatori, contrabbandieri e rapinatori, dice. Dice che le donne siedono dietro la soglia del basso in una specie di povera imitazione delle vetrine di Amburgo, dice. Dice che sono prostitute d'infima specie, dice, grasse e sformate, dice, volti malati sotto un trucco grottesco, dice. Dice che attorno alle donne, dice, sia al san Berillo che al san Cristoforo, dice, dice che c'è un mondo di criminali impenetrabili alla stessa polizia, dice. Dice che i ragazzi dai quattordici ai diciassette anni vengono strumentalizzati dagli adulti quali truppe d'assalto, dice, scippi e furti d'auto sono gestiti quasi esclusivamente da minorenni. Dice che su cinquanta auto rubate al giorno venti vengono ritrovate, dice, trenta spariscono, dice, inghiottite dal nulla anche se si sospetta che vadano a finire in Africa, dice. Dice che continue sono le aggressioni a donne che stanno facendo la spesa in centro; dice che ci sono ragazzini di quattordici anni che si sparano nei piedi per stabilire a chi tocchi l'utile di una prostituta; dice che ci sono scippi a catena, dice, organizzati in piazza Caduti del mare da una banda di giovanissimi, dice, che sfruttava il rallentamento obbligatorio del traffico, dice, per aprire contemporaneamente tutti gli sportelli delle auto in transito asportando qualsiasi oggetto si trovasse all'interno, dice. Dice che i catanesi, di colpo, hanno scoperto che mancano le strutture fondamentali, dice; dice che l'industrializzazione dalla quale avevano preteso soluzioni miracolistiche, dice, li ha lasciati con alcune aziende statalizzate che non producono benessere ma sono solo di peso, dice. Dice che il turismo, dice, in una città che ha chilometri di splendido mare da sfruttare ,dice, è stato completamente trascurato, dice. Dice che i politici locali hanno trasformato il governo della città, dice, in una faida delle parti lontanissima da ogni interesse per il bene comune. Dice che sull'originaria volontà politica di trasformare Catania in una Milano del Sud, dice, s'inserirebbe smisuratamente una partitocrazia sensibile, dice, a doveri clientelari, dice, esposta a ogni tipo di pressione speculativa, dice, impegnata nella distribuzione di prebende, dice, ai notabili più meritevoli dice. Dice che a Catania, dice - che sono gli stessi politici che governano la città ad ammetterlo, dice - dice che c'è un vuoto di potere, dice. Dice che tra i partiti democratici e la base, dice, non c'è colloquio né comunicazione d'interessi, dice. Dice che la crisi economica, dice, che ha investito Catania, dice, che li ha trovati del tutto impreparati, dice. Impegnati, dice, in lotte personali, dice, hanno lasciato che la città continuasse a consumare se stessa, dice, senza contribuire a creare nulla di nuovo, dice. Dice che ci si è dimenticati negli ultimi anni di fabbricare scuole e ospedali, dice, che ci si è dimenticati di programmare uno sviluppo industriale, dice, di puntare sul turismo, dice, di creare valide strutture portanti per i diversi insediamenti, dice. Dice che la situazione si deteriora sempre più rapidamente. Dice che gli ospedali cittadini sono in condizioni disastrose. Dice che c'è un'industria sovvenzionata che paga tre miliardi di stipendi annui per un fatturato che non supera il miliardo, dice. L'edilizia, dice, che da sola fino a qualche tempo fa ha fatto da cavallo trainante dell'economia catanese, dice, è sempre stata esclusivamente residenziale, dice, di lusso, dice, insomma, ad altissimi indici speculativi, dice. Oggi Catania, dice, dice che è una città dove nessuno ancora muore di fame. Dice che è una città dove i redditi più alti non compaiono perché gli intestatari hanno ottenuto la residenza nei paesi dei dintorni. Dice che è anche una città molto delusa nelle sue ambizioni, che erano diverse dalla realtà di oggi. Dice che la città forse riuscirà a sopravvivere ma certo la democrazia, qui, è molto malata. Dice che il catanese assiste sbigottito allo sfacelo della sua città nella quale aveva sempre creduto.

E io dico: "Che culo, non siamo più nel 1973!"

martedì 24 agosto 2010

A PROPOSITO DI UVA GRAPES, BIG [CITS] E DI DRAMMATURGIA DEL POTERE

A chi non sia di Catania e, o, non vi si trovi in questi giorni, magari interesserà una vicenda emblematica della guerra che l'ideologia della "scimunitaggine scientemente imperante" nel nostro paese ha (non) dichiarato a ogni azione residua di creatività vitale. La circostanza che riporto ha una sua struttura drammaturgica che prende l'avvio da una condizione di forte squilibrio. C'è un mondo ordinario in cui "un solo uomo possiede tutte le televisioni (tutte), le due emittenti radiofoniche più importanti, il quotidiano più letto (più parte degli altri due quotidiani che escono in quel territorio), una casa editrice, la più importante concessionaria per la raccolta pubblicitaria, due società per la pubblicità su cartellonistica stradale" (sic. cit. dal blog di Daniele Andaloro). Un uomo solo che ha licenziato l'intera redazione moderatamente indipendente della sua tv più importante. No, non è l'Italia di Silvio Berlusconi, è la Catania di Mario Ciancio. In questo mondo ordinario del regno di Mario Ciancio, c'è un ente pubblico, il Comune, noto nel mondo per l'alta qualità della sua azione amministrativa (un buco di bilancio di centinaia e centinaia di milioni di euro) e per la straordinaria trasparenza con cui decreta cambi di destinazione d'uso di terreni - in un'area geografica in cui, negli anni, è stata costruita forse la più alta percentuale europea di centri commerciali per numero di abitanti; - di terreni, dicevo - acquistati a costo agricolo da quello stesso unico proprietario della totalità dei mezzi di informazione e di agenzie per la raccolta pubblicitaria presenti sul territorio. Trasparentissimi affari d'oro non riportati da nessun organo di informazione che non sia considerato semisovversivo, visto che gli altri di tutto il meridione d'Italia, fino a Bari, per un verso o per l'altro, li possiede o li controlla lui. Un Comune, dicevo, che tanta ricchezza ha profuso nei conti correnti dei suoi cittadini, e che da un decennio, ad eccezione di alcune iniziative realizzate con fondi europei, non ha trovato nulla da investire in quelle cose inutili che sono le attività culturali. Ma, vi ho anticipato che questa storia ha una sua struttura drammaturgica e quindi, a un certo punto, interviene un evento dinamico, un catalizzatore, un incidente scatenante, un richiamo all'avventura che investe i protagonisti. A Hollywood avrebbero detto gli eroi; ma qui siamo in Italia, dove gli eroi si chiamano Mangano e fanno di professione i cattivi. Però, siccome questo è il mio racconto, le funzioni drammatiche ai miei personaggi le attribuisco io. Insomma, a un certo punto, in questo mondo ordinario, ad altissima densità mafiosa, in cui vige un cotrollo straordinario su ciò che si deve o non si deve sapere, il famoso Comune di Catania, dicevo, chiede, in via eccezionale, a tutti (?) gli artisti, gli organismi di produzione, i teatri, etc., di offrire alla città in maniera gratuita (come se nella normalità fosse garantito a codesti un continuo e costante finanziamento) la propria programmazione. A tale autorevole appello rispondono con encomiabile generosità l'Associazione Musicale Etnea e la Compagnia Zappalà Danza, le quali insieme decidono di condividere l'organizzazione del Festival Uva Grapes che da sette anni è ideato e realizzato dalla compagine diretta dal valente coreografo Roberto Zappalà. L'Associazione Musicale Etnea investe nell'operazione buona parte della sua trentaseiesima stagione concertistica. Le due strutture danno l'avvio a qualcosa di inusitato per il territorio, addirittura "una rete per condividere uno spazio di lavoro e confronto per le culture e i linguaggi del contemporaneo" (cit.). Includono la Fondazione Puglisi Cosentino, il Teatro Massimo Bellini, la casa editrice Mesogea, gli amici della musica di Trapani. Sembra andare tutto bene. Il festival presenta il primo evento che coincide con la campagna pubblicitaria. Giuseppe Parito, infatti, non è un pubblicitario qualsiasi, è un artista, ed espone la sua opera negli spazi sacri della pubblicità. L'evento, si chiama Big [Cits] - "Le parole sono importanti". I quadri devozionali sei per tre di berlusconiana memoria vengono occupati da 5 citazioni: "Lo scrittore è un ingegnere dell'anima umana" (cit.); Il mondo progredisce, l'avvenire è radioso, nessuno può cambiare questo orientamento generale della storia (cit.); Un peccato di gioventù è quando si è giovani e non lo si commette (cit.); Le parole in determinate occasioni possono essere dei fatti (cit.); La verità ha sempre mille voti come ogni volto ha sempre mille verità (cit.). I catanesi, ma anche i turisti, si fermano a guardare: "Minchia, che frasi profonde" (cit.). Alcuni vengono avvistati mentre copiano le cits., e addirittura finiscono per pubblicarle sui loro profili nei social networks (non è vero, ma non è neanche inverosimile). “Non si sa mai di chi si masticano i pensieri (cit.), avverte Parito nelle sue note sull'opera. E fin qui siamo ancora nel primo atto. Ma, ecco che avviene il primo punto di svolta, il varco della soglia dell'avventura, l'inizio del viaggio nel mondo straordinario. Il giornale di proprietà dell'unico proprietario di giornali e di cartelloni sei per tre pubblica, in prima pagina dell'edizione locale una e-mail di un lettore che si è preso la briga di andare a scoprire in rete a quali autori siano da riferire tali tali citazioni. E, meraviglia delle meraviglie, si scopre che sono da attribuire rispettivamente a Stalin, Mao, Hitler, Mussolini e Berlusconi. Dio ne scampi! La Sicilia pubblica la e-mail del lettore in copertina con un titolo a quattro colonne: "Frasi di dittatori per presentare un festival, oscuratele!" E una mezza pagina all'interno che accusa l'autore di aver voluto creare uno scandalo pur di richiamare in ogni modo l'attenzione. Ed è proprio in questo momento che vengono fuori con più chiarezza le figure dei protagonisti e degli antagonisti. Onta, bestemmia, oltraggio. Nessuno, che mi risulti, spiega apertamente perché. Pseudo giornalisti al servizio del padrone del vapore di cui sopra cominciano la campagna per normalizzare gli effetti da cortocircuito crossmediale dell'azione situazionista. Un'azione clamorosamente efficace che colpisce nevralgicamente nel segno il santuario del potere. Parito è riuscito a penetrare come lama nel burro nel sistema operativo della Matrix catanese, suscitando un piccolo shock e un successivo sentimento di imbarazzo in coloro che avevano subito un brusco risveglio. Il risultato è stato di mandare in tilt temporaneamente il meccanismo perfettamente lubrificato della creazione del consenso. I catanesi, ma anche i turisti, sono stati costretti a rendersi conto di cose di cui normalmente non ci si deve rendere conto. Hanno dovuto osservare il metalinguaggio, ciò che normalmente rimane occulto. La retorica, il contesto, il segno. E facendolo si sono guardati allo specchio e si sono vergognati. Si sono vergognati di non aver saputo leggere. Di essere impreparati. Di non avere gli strumenti per distinguere. Hanno guardato nel retrobottega del pizzicarolo e hanno visto la roba avariata di cui si nutrono ogni giorno e che fanno portare a scuola come merenda ai loro bambini. Hanno provato lo smarrimento del dubbio di non avere in mano la materia prima con la quale costruire le proprie più autentiche convinzioni. E tutto questo è avvenuto violando la pinacoteca liturgica del sacro impero degli ipermercati; è avvenuto sui tabelloni, dedicati alle immagini sante del commercio monopolmercatista, controllati dal noto imprenditore, padrone e direttore dal 1967 dell'unico giornale che dovrebbe relazionare sugli affari e sugli intrighi di potere del medesimo direttore (nemmeno il Pierino anziano infoiato coi capelli finti di Arcore ha avuto ancora l'ardire di prendere il posto di Emilio Fede); tutto questo si è consumato sulle pale d'altare del proprietario di tutti i mezzi di informazione e da cui dipendono le sorti di tutti i politici di maggioranza e di opposizione di questa parte importante della Sicilia. Di questa regione che ha suscitato la sorpresa dell'Italia intera quando nel 2001 ha decretato la vittoria del centrodestra esprimendosi in 61 seggi su 61 per la santificazione definitiva di Silvio Berlusconi. Chissà come mai? E ora chiedo agli amici non di Catania: questa è una vicenda così insignificante da relegare a polemica estetica interna a una afosa città di provincia ignorante e cafona, o ha a che fare intimamente con il paese disorientato che siamo diventati? La storia ovviamente non finisce qui, perché l'esercito dei normalizzatori si ingrossa e tutti cercano di fare interventi da un piano superiore, spiegando a Davide, che ha colpito Golia dentro le mura della sua cittadella fortificata, che cosa si debba intendere per comunicazione. Viene accusato di tutto, Parito, di avere offeso gli ebrei, di essersi fatto pubblicità con soldi pubblici... Qualcuno sta cercando di capire se ci siano gli estremi per far scattare denunce. L'assessore alla cultura e grandi eventi, la stilista Marella Ferrera, che aveva chiesto di poter patrocinare gratuitamente il festival, prende le distanze dall'operazione. Uva Grapes è in corso e siamo a metà del secondo atto. Si attende il midpoint, e poi ancora ostacoli sempre più complicati da superare prima del finale. Ma c'è un aspetto che rende questa vicenda importante e degna di essere emulata: la sfida lanciata da Parito contende all'avversario sul suo terreno il primato dell'azione creativa, dell'influeza sulle sorti della propria vita e di quella collettiva. La sfida lanciata da Parito non è quella di una vittima rabbiosa e impotente. Al contrario. Per questo è difficile relegarla in un ambito marginale. Quanto ci vorrà a capire che Parito e gli organizzatori di Uva Grapes sono i veri eroi di questa Italia e che noi, tutti gli altri, stiamo delegando a loro l'assunzione di ogni rischio? A loro che fanno ciò che è richiesto a tutti noi, lo vogliamo o no, per vivere pienamente i nostri tempi in questo paese in cui ci è capitato di esistere: giocare sul tavolo del presente l'intera posta di se stessi.

domenica 15 agosto 2010

RIPRENDIAMOCI IL RACCONTO DI QUESTO PAESE

Siamo intrappolati dentro una trama da cui non riusciamo più a uscire. Ed è una trama che non abbiamo scritto noi. Le battute e le situazioni drammatiche a cui ci tocca assistere da spettatori della democrazia sembrano provenire direttamente da un film pecoreccio degli anni settanta. Protagonisti, come da sempre, sono i vertici del potere. La novità di questi anni è che sono diventati anche i principali narratori. Sono i narratori di se stessi. Hanno vinto la battaglia dell'egemonia culturale italiana. Sono loro i nostri autori. E' bene rendersene conto. Lo so, non è più tempo di intellettuali organici. Penso soltanto che ci sia bisogno di ricominciare a contendersi l'autorialità, non più, certo, ideologicamente schierata. Ma la cultura italiana non può derogare al sogno dell'invenzione della realtà. Fino agli anni settanta la mistificazione quotidiana che il potere faceva della verità veniva riequilibrata dalla capacità degli intellettuali e degli artisti di imporsi nell'immaginario pubblico. Che fie ha fatto quella voglia di avere una funzione anche sociale? Io non scrivo solo per me stesso. E non credo che chiunque produca una qualsiasi creazione possa farlo senza esprimere ed essere espressione del mondo a cui appartiene. Loro hanno le redini del potere, noi riprendiamo le redini della rappresentazione.

IL POTERE DELLA DRAMMATURGIA

Comincio a ragionare pubblicamente su cosa significhi per me la parola per rappresentare. E parto da una domanda: è possibile non rappresentare? E' possibile cominciare una giornata senza immaginarsi qualcosa, ricordare qualcosa, prevedere, pregustare, sperare, temere, desiderare? Neanche la semplice azione di guardare sembra concernere esclusivamente la percezione visiva "oggettiva". Pare che per vedere un'immagine il cervello debba in qualche modo riaggregare i dati percepiti dagli occhi e, in una qualche maniera, "immaginare" la realtà.
Ne L'arte di vedere, Aldous Huxley dice che: "Quando noi vediamo, la nostra mente entra in rapporto con gli eventi del mondo esterno per mezzo degli occhi e del sistema nervoso. Nel processo della visione, mente, occhi e sistema nervoso sono strettamente associati in un tutto unico. Influenzando uno di questi elementi si influenzano tutti gli altri. [...] Il processo della visione può essere scisso analiticamente in tre processi distinti: sensazione, selezione, percezione. Oggetto della sensazione è un complesso di sensa che si trovano in un determinato campo. (Un sensum visivo è una delle chiazze colorate che formano, per così dire, il materiale grezzo della visione e il campo visivo è la totalità di tali chiazze colorate [...]) La sensazione è seguita dalla selezione, un processo per cui una parte del campo visivo viene distinta e sceverata dal complesso [...] ... in qualsiasi momento c'è in generale nel campo visivo qualcosa che ci interessa distinguere più chiaramente di tutto il resto. Il processo finale è quello percettivo. Esso comporta il riconoscimento del sensum sentito e selezionato come apparenza di un oggetto fisico esistente nel mondo esterno. E' importante ricordare che gli oggetti fisici non ci vengono offerti come dati primari. Ciò che ci viene dato è soltanto un complesso di sensa non referenziali. In altre parole, il sensum, come tale, è semplicemente una chiazza colorata senza alcun riferimento a un oggetto fisico esterno. Quest'ultimo appare soltanto una volta che il sensum sia stato selezionato, e che venga poi usato per percepire. E' la nostra mente che interpreta il sensum come l'apparenza di un oggetto fisico esistente nel mondo esterno".
Ciò che vedo, se ho capito bene cosa dice Huxley, sembra essere di fatto un'elaborazione della realtà esterna. Un po' come il "Questa non è una pipa", di Magritte. Il mondo esterno è fatto di chiazze colorate che per essere restituite come oggetti, persone, realtà, etc. devono passare per un processo di rappresentazione messo in scena dalla mia mente. Non posso allora che avere una percezione immaginaria del reale. Quindi, la mia capacità di conoscere il, e di relazionarmi col, mondo potrebbe dipendere parecchio dalla qualità con cui, e dal modo in cui la mia mente crea per me le mie rappresentazioni.
In usare il cervello per cambiare, Richard Bandler sostiene che: "La maggior parte degli individui non utilizza attivamente e deliberatamente il proprio cervello".
Che intende dire? Che ci può essere un modo attivo e deliberato di elaborazione ed interpretazione dei sensa, rispetto a un modo reattivo e non deliberato? E come potrebbe intendersi un modo non reattivo. Mi viene spontaneo pensare che si possa trattare di un modo deliberatamente creativo di elaborazione dei sensa. Come se si trattasse di diventare consapevoli di poter creare attivamente l'immagine del mondo esterno con tutte le conseguenze materiali che ciò comporta. Più che altro di diventare consapevoli che non si può non creare l'immagine del mondo esterno a noi, che lo si faccia deliberatamente e creativamente o passivamente e reattivamente. William Blake dà molto valore a questa consapevolezza quando dice: "Colui che non immagina a tratti migliori e più intensi, e in una luce migliore e più intensa di quanto possa vedere il suo occhio morente e mortale, non immagina affatto". In buona sostaza reagisce soltanto, è vittima predestinata di un fuori fatto di brutte chiazze colorate.
Senza timore di derive new age, mi chiedo anche se la realtà delle chiazze colorate dei sensa in cui vivo e alla quale reagisco e da cui dipendono in modo così determinante le mie rappresentazioni non sia soggetta in qualche modo ad essere "ricreata" dalla creatività che introduco quando trasformo quelle stesse chiazze colorate o quegli stessi sensa in percezioni, visioni, dialoghi. La rappresentazione della realtà trasforma in qualche maniera la realtà? Se sì, allora il modo in cui ci si rappresenta il mondo, creativamente o reattivamente, assume una rilevanza praticamente assoluta. Io non so se questa considerazione corrisponda a una verità universale e forse non è così importante saperlo. Ma la cosa che non può essere sottovalutata è l'ossessionante impossibilità dell'uomo di esimersi dal produrre costantemente drammaturgia. Non può non farlo. Bandler dice che il cervello è come una macchina alla quale manca l'interruttore con la posizione di "spento". O decidi di partecipare attivamente a questa creazione o scegli di lasciarti andare alla produzione di qualunque cosa capiti, che il più delle volte significa roba scadente, priva di passione e soprattutto sempre uguale a se stessa poiché figlia dell'abitudine. Non c'è alterrnativa. Figuriamoci se una tale attività nevrotica disponesse anche della facoltà di influenzare la creazione stessa del mondo. Credo, perciò, che diventare consapevoli del potere di un tale codice drammaturgico, costituente forse la stessa natura umana, sia un atto dovuto di assunzione di responsabilità. Il potere della drammaturgia è lo stesso che può dare la libertà e toglierla agli individui e alle comunità. Creare una buona drammaturgia equivale a creare le condizioni per una vita viva, appassionata, ricca di possibilità. Una nazione che non sa nemmeno rappresentarsi il suo incubo, che non sa utilizzare il suo potere drammaturgico creativo è una nazione che ha derogato alla qualità dell'umano ed è destinata a continuare ad essere una Repubblica di Morti Viventi.

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