domenica 15 settembre 2013

LA CITTÀ PARALLELA

Digressioni su: "Ballata per San Berillo"



Dire di San Berillo significa addentrarsi nel cuore di tenebra di Catania. Nel nucleo ingenito della sua contraddizione contemporanea. Significa andare a ritroso nella nevrosi che ne costituisce il sintomo. Bubbone purulento, pustola infetta, escrescenza, ciste: la letteratura storico giornalistica era sempre stata prodiga di termini anatomo-patologici, oggettivi, scientifici, ogni qualvolta aveva cercato definizioni per descrivere il quartiere di San Berillo. Un corpo estraneo nel corpo della città. Un tumore. Una Catania abusiva nel centro di Catania. Già decenni prima dello sventramento la città egemone aveva messo in opera una tale azione di propaganda. Aveva deciso di cacciare la città subalterna dai territori in cui abitava. Aveva deciso di spremere il bubbone infetto, di evacuare il pus, un pus osceno di trentamila cristiani. E per questo aveva messo in campo la precondizioni culturali per giustificare la sua dichiarazione di guerra. Sin dalla sua ricostruzione dopo il terremoto del 1693 che la distrusse completamente Catania aveva assunto questa doppia e distinta identità: egemone, costituita da clero e nobiltà agraria che aveva investito nelle cubature sontuose che caratterizzano tutt'oggi la Catania tardo barocca; e subalterna, costituita dagli operai e dagli scalpellini venuti dalla provincia che quella città egemone avevano materialmente costruito e che si erano insediati nell'area retrostante l'antica porta di Aci (piazza Stesicoro), che divenne poi il popolarissimo quartiere di San Berillo.  Un'area che alla fine degli anni 50 si estendeva per 240.000 metri quadrati ed era popolata da 30.000 abitanti.
Costruire un'opera su San Berillo ha richiesto, a me, a Elio Gimbo e a Fabio Grasso, lo studio di una forma, di un dispositivo, che  rappresentasse in profondità questa condizione metaforica di sintomo.
Un sintomo che non è stato guarito dallo sventramento e dall'espulsione in massa dei trentamila catanesi subalterni dalla loro città che avevano edificato. Un sintomo che, come ogni sintomo, si aggrava e ritorna in forme sempre più virulente quando non si affronta la causa che genera il malessere. Da dove partire, quindi, ad indagare? Il sintomo è di per sé una forma condensata di drammaturgia. E' una conformazione con uno schema formale che presuppone una scaturigine. Quindi, forse, un viaggio in direzione della sorgente? Sì, ma da dove far salpare le nostre navi se non dalla contemporaneità, dal malessere generazionale che vivevamo, dalla malattia di cui eravamo parte e che Catania ci riversava addosso?
E allora, via con le nostre ferite. Cose che non sono mai finite dentro lo spettacolo, ma che ne hanno stimolato la creazione.

1980. Non ho ancora 17 anni. Percorro la via Mercede quando, nell'istante che avverto un sibilo metallico,  davanti ai miei occhi si scalfisce il muro d'angolo dove la traversina incrocia via Caronda, proprio in faccia alla chiesa di Santa Maria della Mercede. Non capisco subito cosa stia succedendo. Mi affaccio su via Caronda. C'è un ragazzo alla mia sinistra, accanto a un motorino. Lo riconosco. E' un mio ex compagno di scuola, uno che già ai tempi delle elementari era stato beccato mentre rubava un pony. Dall'altra parte della strada, all'angolo tra via Caronda e via Costanzo, nascosto dietro una macchina, un gruppo di cinque giovani. Venticinque, trent'anni, trasandatissimi, capelloni, barba lunga, aria truce. Praticamente dei delinquenti. O almeno cercano in ogni modo di apparire tali. Hanno appena sparato al mio compagno delle elementari colpendo il muro della stradina dalla quale sono appena venuto fuori. Attraversano al strada e... in pochi secondi  riducono il corpo del mio coetaneo a una poltiglia di sangue facendolo assomigliare in maniera sconvolgente alle fotografie del cadavere martirizzato di Pasolini che mi era capitato di vedere per la prima volta proprio in quei giorni. E mentre quegli animali lo caricano in macchina come un sacco d'immondizia, io cerco un citofono a cui suonare per chiedere a qualcuno di chiamare la polizia. “Sono loro la polizia”, mi rassicura una signora che viene fuori dalla chiesa. E più mi rassicura, più io tremo. E mi sento in fibrillazione. Non capisco cos'è. Il mio sintomo è la paura, il panico e una rabbia cieca. Saranno gli ormoni della fine adolescenza, spiegano i dottori a mia madre. Ma nessuno riesce a convincermi che questa sensazione fisica non sia invece legata al fatto di vivere in questa città.

C'è qualcosa che mi sfugge, uno iato tra quello che vedo e quello che sento. Ci sono cento morti ammazzati all'anno in città, c'è una guerra in atto, e autorevoli dichiarazioni della città egemone che assicurano che la mafia a Catania non esiste. Che è una cosa di Palermo. Quello che è sotto i miei occhi, sotto gli occhi di tutti, subisce una cancellazione percettiva. Una cancellazione che in me e nella maggioranza dei catanesi, finisce per diventare  l'unica percezione cosciente. Un incantesimo che ci strega gli occhi e che ci induce a guardare la nostra città come da dietro un vetro opaco, da dentro una cortina di sonno. Mi chiedono di convincermi che il reale non sia reale. Di abituarmi a credere che sia qualcos'altro. Mi chiedono di credere che quelli che hanno quasi ammazzato il mio compagno non siano delinquenti, ma poliziotti travestiti da delinquenti. Che recitino. Che sia come a teatro in cui io faccio finta, convenzionalmente, di credere all'interpretazione di questi attori poliziotti che interpretano i personaggi dei delinquenti, ma che io, in quanto spettatore, devo riconoscere nella loro qualità di tutori dell'ordine e della legge. Mi chiedono di non fidarmi di me stesso, delle sensazioni del mio corpo, che in una qualche parte più profonda capiscono e mi avvertono che la realtà non può essere limitata a quella rappresentazione. Che deve esserci da qualche altra parte una realtà parallela, una città parallela alla quale non mi è consentito di accedere. Una città in cui, come avrei saputo molti anni dopo, alcuni di quei poliziotti finti delinquenti sono veri e propri killer al soldo di Nitto Santapaola. Mafiosi, finti poliziotti, che recitano la parte dei mafiosi. Cioè di ciò che in realtà sono.  Una città parallela, subconscia, in quanto fuori dalla consapevolezza degli abitanti. Una città nascosta sotto la pelle della città in cui è in corso da anni una guerra con un solo esercito in campo che sta facendo fuori ogni singolo possibile oppositore, ogni singolo possibile disvelatore di quel livello occulto di realtà. 

Ma quando avevo avvertito per la prima volta che Catania si nascondesse a se stessa in quel modo? Per me, per molti di noi, sono sicuro, ciò è avvenuto la notte del 5 gennaio 1984. Quella notte il sintomo esplode, deflagra, squarcia la pelle e lascia scoperte ampie ferite che sono dei veri e propri passaggi per entrare nella città parallela. Precipizi che ci svegliano in un batter d'occhio e che ci fanno rendere conto che non ce ne eravamo mai resi conto, che quella città era lì e che era lì avevamo sempre vissuto, che era in quell'inferno che stavamo vivendo. Per fare un favore ai Cavalieri del lavoro, agli stimati imprenditori della città egemone, agli imprenditori che avevano iniziato ad accumulare le loro fortune con i subappalti della mega operazione di sventramento del quartiere di San Berillo, il gruppo di fuoco di Ognina della famiglia Santapaola quella notte fa fuori Pippo Fava, che con l'iniziativa editoriale indipendente de “I Siciliani”, aveva puntato i riflettori sulla città oscura, sulla guerra non dichiarata.

Come poteva non essere questo allora il trigger, l'innesco del dispositivo drammatico, il punto di partenza del viaggio? Un viaggio tutto in una notte nell'arena della città parallela. Condensato nel tempo fisico del percorso della pallottola che dalla canna della pistola di Aldo Ercolano raggiunge il corpo sacrificale di Fava. Espanso nel trip soggettivo di due adolescenti che attraversano avanti e indietro il tempo e lo spazio della città guidati dal drammaturgo-giornalista in funzione di driver metafisico. Guidati a riconnettere i fili spezzati che legano insieme la tela delle solitudini delle vittime inconsapevoli della guerra segreta di Catania.  

Ma questo passaggio a una dimensione altra della realtà porta, nella dinamica del lavoro drammaturgico, a dover fare i conti con un genere specifico, il fantasy, che ha le sue necessità da soddisfare, pena il rimanere vittima delle aspettative mancate del pubblico. Ballata per San Berillo è un noir fantasy politico sovrannaturale. Parla di cose realmente accadute, precisamente documentate, ma lo fa nel linguaggio del sogno psichedelico. Non c'è nessuna gratuità in questo. Non si tratta di una licenza stilistica. E' la condizione più naturale che avevo teatralmente a disposizione per accostarmi anche nella forma alla memoria negata ma emotivamente pulsante della città. Ristabilire un patto di credibilità con la realtà tra me e il mio pubblico specifico attraverso l'immersione in una realtà scenica incredibile è stata un'azione politica di rovesciamento del patto di credibilità con la realtà che il potere della città egemone aveva contratto con la città subalterna mantenendola in uno stato di inconsapevolezza. Poter sciorinare i dati della truffa ai danni dei proprietari espropriati dell'area soggetta a sventramento da parte dell'Istica, dell'Ist Berillo, della Società Generale Immobiliare, dei politici della Cumacca che sono ascesi al potere attraverso di essa e lo hanno mantenuto per più di quarant'anni, etc. all'interno di un'allucinazione lucida mi ha consentito di stabilire un rapporto di empatia profonda con gli spettatori. Non si trattava più, per me e per loro, di dare o ricevere informazioni, bensì di celebrare un rito di emendamento dal male. Un'esperienza intensa e stranissima. Qualcosa che non mi era mai capitata. Replichiamo lo spettacolo in città dal 2001. Ogni volta immaginiamo di non farlo più perché valutiamo di aver esaurito il bacino di pubblico disponibile a venire a vederci. E ogni volta è una sorpresa accorgerci che gli spettatori sono sempre più numerosi. Ma la cosa ancor più sorprendente è accorgerci che sono tantissimi gli spettatori che tornano, che hanno partecipato allo spettacolo chi tre, chi quattro, chi cinque volte. E' evidente che non si tratta semplicemente del godimento di un'esperienza estetica. La leggo come la necessità di tornare nel luogo del sacrificio iniziale, dello stupro fondante della convivenza della Catania contemporanea. Questo rappresenta per me San Berillo e lo spettacolo che mi ci ha legato: il quartiere santo, martire laico, compatrono con Sant'Agata della mia città. Io, Elio Gimbo e Fabio Grasso lo veneriamo ogni volta che ci viene chiesto di rimettere in scena la nostra Ballata.

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