mercoledì 8 dicembre 2010

'u golpe


a cento passi da me casa

… in via Etnea, a casa di Pippo Calderone, i capi di cosa nostra stavano in riunione. C'erano Luciano Liggio, Masino Buscetta, Totò Greco Cicchiteddu. Ogni tanto veniva Binnu Provenzano col treno da Palermo, sei ore di viaggio, perché non aveva i soldi per la macchina e perché non sapeva guidare. Venti giorni di riunioni a cui partecipavano i mafiosi più mafiosi che andavano e venivano da Palerrmo, Caltanissetta e tante altre province. Venti giorni di riunioni, ma non troppe perché c'era la Coppa del Mondo Rimet 1970, in Messico, e i mafiosi volevano vedere le partite. A trenta passi dalla parrocchia di Santa Maria della Mercede, dove noi rigiocavamo Italia Svezia, uno a zero, con il goal di Domenghini, che però era Iaffiu, ma noi lo chiamavamo Domenghini, perché il goal lo rifaceva preciso preciso. Avevamo sette, otto, nove, dieci anni. A un passo dalla casa di Iaffiu Domenghini, dove suo padre era il portiere. Il portiere del palazzo dove c'era l'appartamento di Pippo Calderone. A zero passi, u golpe. Perché di questo discutevano nelle riunioni tra una partita e l'altra, se mandare i picciotti ad occupare le prefetture e imporre nuovi prefetti. Così aveva proposto a cosa nostra Junio Valerio Borghese attraverso il mafiosissimo Giuseppe Di Cristina, dipendente dell'EMS, l'Ente Minerario Siciliano, cioè l'ENI dell'isola, capo della famiglia di Riesi, in provincia di Caltanissetta. Se qualcuno avesse fatto resistenza, i mafiosi – che avrebbero dovuto portare per l'occasione una fascia di riconoscimento al braccio – lo avrebbero dovuto immediatamente arrestare. A Pippo Calderone venne un colpo: “Arrestare a chi? Noi, i mafiosi, metterci a fare gli arresti. Nuiautri cose 'i sbiri 'un ni facemu! Omicidi, se è il caso, i facemu, ma arresti...” Era scandalizzato lo zio Pippo, mentre a cento passi, in via Costanzo, a casa mia c'era ospite Maria, la cugina di mio padre, che veniva dal paese e si doveva fare l'opirazione. Però era contenta Maria, perché suo marito lo stavano assumendo alla nuova raffineria che avrebbe dovuto sorgere a Marina di Melilli. Era una cosa che non era ancora ufficiale. L'onorevole Raciti gli aveva promesso il posto. Il fatto era che i Cameli di Genova, da armatori che erano, avevano deciso di convertirsi in raffinatori di petrolio e avevano acquisito una vecchia licenza inutilizzata dagli anni 50 e stavano cercando un posto dove insediarla sta benedetta fabbrica. Il problema era che questa raffineria l'avevano rifiutata da diverse parti: a Sestri Levante, a Ravenna, a San Vito Lo Capo. Stavano riuscendo quasi a farla all'oasi di Vendicari se quei rompicoglioni degli ambientalisti ante litteram non avessero fatto il diavolo a quattro. Il comune di Noto e pure i sindacati la volevano a tutti i costi nel loro territorio perché sarebbe stato lo sviluppo dall'arretratezza così finalmente pure la passscrrrria del basssscrrrocco abrebbe avuto la sua indussssrrriia; eppure la situazione era in stallo. C'era bisogno almeno di una trentina di autorizzazioni per insediare una raffineria in un'oasi naturale. Cose da pazzi, ripetevano i Cameli. L'Italia è veramente sull'orlo di un disastro sociale e politico. Addirittura al governo ci stanno pure i socialisti e il parlamento sta per approvare lo statuto dei lavoratori. Ma dove vogliamo arrivare! Di questo discutevano il 12 aprile dell'anno precedente i Cameli con il principe Junio Valerio Borghese a Genova, in una villa a picco sul mare in via Santa Chiara, 39, la casa dell'industriale Guido Canale. Ma dove vogliamo arrivare! E' il momento di fare u golpe. Erano rimasti daccordo così i Cameli con Junio Valerio Borghese: loro come armatori avrebbero messo a disposizione, quando sarebbe arrivata l'ora x, le loro navi per il trasbordo alle Eolie e in Sardegna degli avversari politici rastrellati dai mafiosi e dai carabinieri golpisti. Così dicevano i Cameli proprio in quei giorni che Maria aspettava di farsi l'opirazione a casa mia e la situazione per la costruzione della raffineria era in stallo. Poi Cameli viene a parlare con l'assessore Raciti e con tutti i politici dell'arco costituzionale siciliano e in meno di cento giorni ottiene tutti i nulla osta che servono per costruire questa raffineria a Marina di Melilli. Il problema era che a Marina di Melilli, dove doveva sorgere questa mega raffineria, c'era... Marina di Melilli; le case di Marina di Melilli, i bambini di Marina di Melilli, le donne incinte di Marina di Melilli; i vecchi di Marina di Melilli... E poi c'era la legge che vietava assolutamente di costruire impianti inquinanti a ridosso dei centri abitati. Quella raffineria era proprio un abuso. Cose da pazzi!, pensavano i Cameli. Ma dove vogliamo arrivare, vogliamo fare come in Cile che è diventato uno stato comunista? E allora ci pensa Raciti e tutto il consiglio d'amministrazione dell'Area di Sviluppo Industriale di Siracusa che approva una variante del piano regolatore rendendo legittima la raffineria e trasforma in abusivo l'intero paese di Marina di Melilli che deve a questo punto essere raso al suolo. U golpe, hanno pensato gli abitanti del paesino della costa ionica che non sapevano dove caspita avrebbero dovuto trasferirsi. Finalmente, pensava Maria mentre aspettava a casa mia di farsi l'opirazione. Poi si trovò il foglio con le cifre che Cameli e il suo socio Garrone hanno pagato a Raciti e a tutto l'arco costituzionale siciliano, compresi i comunisti, per fare u golpe a Marina di Melilli. Compreso l'Ora, il glorioso giornale di Palermo dove lavorava Mauro De Mauro. Che nei giorni de “u golpe a cento passi da me casa” intervistava Graziano Verzotto, plenipotenziario democristiano a Catania e nel siracusano fin dal dopoguerra, potentissimo presidente dell'EMS, l'ENI siciliana, compare d'anello insieme allo zio Pippo Calderone del suo dipendente mafiosissimo Giuseppe Di Cristina. Lo intervistava perché in quei mesi in Italia e in Sicilia si stava giocando la partita del petrolio, che significava “u golpe mondiale”, e un pezzo de “u golpe mondiale” si stava giocando a cento passi da me casa, nello stesso porticato dove Iaffio Domenghini rifaceva il goal di Italia Svezia preciso preciso. De Mauro lavorava in quei giorni per Verzotto e lo aiutava nella sua battaglia contro Cefis il quale si opponeva alla realizzazione del metanodotto che avrebbe dovuto unire la Sicilia all'Algeria. Verzotto riferiva al magistrato Calìa che aveva riaperto il caso dell'attentato a Enrico Mattei che “l'Eni presieduto da Cefis si opponeva alla realizzazione del metanodotto progettato dall'Ente Minerario Siciliano anche allo scopo di non perdere il monopolio sul metano. Il metano definito come la Zecca dell'Eni, era infatti un imponente strumento di autofinanziamento per l'ente petrolifero nazionale e, quindi, di raccolta di risorse per il finanziamento della politica”. Per di più, in quegli stessi mesi d'estate 1970 Mauro De Mauro indagava sulla morte di Mattei per conto di Francesco Rosi che stava per realizzare il suo celeberrimo film. A una sua amica incontrata in quei giorni De Mauro diceva di essere sul punto di rivelare qualcosa in grado di far saltare l'Italia. Anche in questo caso la fonte di Mauro De Mauro era il senatore Graziano Verzotto che soltanto all'utimo momento aveva declinato l'invito di Enrico Mattei di accompagnarlo nel suo ultimo volo che avrebbe portato il suo Morane Saulnier ad esplodere sui cieli di Bascapé. Il Morane Saulnier manomesso all'aeroporto catanese di Fontanarossa. Da chi? Pare che tutto il mondo avesse interesse che quell'aereo saltasse in aria e quell'attentato avrebbe potuto essere organizzato ovunque. Ma fu a Catania che venne piazzato l'esplosivo in un vano dietro la cloche. E' stato necessario eludere sorveglianza, distrarre il pilota, camuffare assassini per ufficiali dell'aeronautica. C'è stato bisogno di un buon controllo del territorio. E a Catania il territorio lo controllava cosa nostra della famiglia del co-compare d'anello del senatore Verzotto al matrimonio di Di Cristina, lo zio Pippo Calderone. Il co-compare senatore Verzotto portò in giro per Catania il pilota di Mattei. Di Cristina, da molti, venne accusato di aver organizzato la manomissione dell'aereo. De Mauro venne fatto sparire dai mafiosi di cosa nostra riuniti per discutere de “u golpe” a cento passi da me casa. Poi, dopo la morte bianca di De Mauro, due mesi dopo, a settembre, viene trovato un foglio dentro un cassetto chiuso della sua scrivania a l'Ora con un appunto manoscritto: “golpe continuato”.

Il marito della cugina Maria, ammalato di tumore ai polmoni per l'inquinamento dovuto al lavoro alla raffineria, morì nel 1985 a bordo dell'ambulanza rimasta bloccata nell'immenso ingorgo causato dal panico della popolazione di Augusta, Melilli e Priolo per lo scoppio di un'altra raffineria, l'Icam. Migliaia, migliaia e migliaia di persone si riversarono nelle strade per paura di una nube tossica dopo aver visto le fiamme arrivare a seicento metri d'altezza. Una donna alla guida di una Mercedes morì d'infarto sul ponte di Augusta. L'unico che collegava alla terraferma. E bloccò in una galera, possibile camera a gas a cielo aperto, gli abitanti dell'isola in fuga. Era la sorella di Raciti, il presidente della Regione che aveva preso i soldi per fare u golpe di Marina di Melilli.
Sull'ambulanza imprigionata dalla sorella di Raciti, moriva il marito della cugina Maria.
Io avevo poco più di vent'anni e non capivo perché mi trovavo nel cuore dell'apocalisse.

P.S. : non tutto è vero in questo racconto. Il marito della cugina Maria me lo sono inventato. Il morto nell'ambulanza non era lui.

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