domenica 5 gennaio 2014

PIOVEVA SU CATANIA QUELLA SERA DI GENNAIO

Pioveva su Catania quella sera di gennaio e dal pianoforte di Spanò precipitavano pezzi di vetro, schegge taglienti, gocce d'acqua affilate come lamette che laceravano la carne dei palazzi costruiti negli anni 50, 60, 70, già fatiscenti. I palazzi costruiti dai migliori ingegneri, geometri, architetti, costruttori, imprenditori, cavalieri, dirigenti politici, direttori di enti pubblici, crema della crema dell'intellighenzia della nostra città, sanguinavano tagliati dalla pioggia. Sanguinavano sul tettuccio della mia SIMCA 1000 color arancione i palazzi merdosi vicino Cibali sotto i quali avevo parcheggiato. Il posto peggiore dove potevamo finire a fare l’amore io e il giovane corpo di una mia amica di allora, o forse il migliore: fottuti da quei palazzi fin dalla nostra nascita. Ci amavamo fottuti dai palazzi. Avrei voluto conoscerli uno per uno, uno per uno, i membri di quelle favolose équipe di tecnici, progettisti, licenziatori edilizi. Pioveva! Mentre Silvia ed io scopavamo disperati, grandiosi e definitivi. Scopavamo incendiati dalla pioggia in quella notte agghiacciata. Scopavamo scomodi, tra il cambio e lo sterzo; scomodi nella nostra città. Scopavamo, e lei era... a fimmina di 'n amicu me, dell'amico mio, dell'amico che quella... ca 'dda sira ava fattu 'na minchiata. Era la donna del mio amico, di quel coglione ca 'dda sira s'ava spurttusatu. Testa di cazzo! Si era pisciato dentro una... cosa, che cazzo ne so... eroina troppo pura, sembra o tagliata male. Non lo sapevamo ancora. Avevo deciso di non dormire più. Pleagine avevo comprato quella sera a Via Caramba, a San Berillo dalle puttane.

Io non lo so come eravamo finiti a scopare lì, vicino al Teatro Stabile, so soltanto che quando, verso le sette e mezza circa, io e Silvia eravamo passati da Via Di Prima, all'altezza più o meno dell'imbocco di Via delle Finanze, da una porta finestra aperta, dalla porta finestra aperta di Spanò, si sentì l'inizio di una musica straziante, densa, carica di... di... non so che cosa. Era come l'ultima musica del mondo. Nessun oriente e nessuna alba all'orizzonte. Il comune senso del pudore mai avrebbe potuto essere offeso maggiormente dal nostro comportamento che non dalla vista oscena, pornografica, violenta della facciata di quei palazzi. Noi eravamo bellissimi, disperati e meravigliosi mentre su Catania cascavano pezzi rotti di cielo mentre io e Silvia ci cercavamo sulla pelle, ci cercavamo sulla labbra. 

Nella prima metà degli anni ottanta del secolo passato avevo circa la metà degli anni che ho adesso. Ero nel mezzo del cammino di quel che è stata fino ad ora la mia vita. Nel mezzo del cammino della mia vita, mi ritrovavo a scopare per le strade di una città accidentata, di una città accidentale, di una città occidentale, che per accidente, avrebbe potuto essere, come era, anzi, doveva essere, Catania.

Quello in cui rimanemmo fissati, Silvia ed io, come sospesi fuori dalla storia, non fu semplicemente l'attimo di un orgasmo. Fu la rappresentazione della bellezza assoluta. Rimanemmo fissati sulle nostre facce come in una maschera. Fissati su quell’espressione inebetita di chi ha appena avuto un orgasmo. Fissati in quella specie d’incantesimo in cui non si aspira più a niente. In quello stato alterato di nuova coscienza che normalmente dura pochissimo. Senza passato né futuro: lo stato puro del presente in cui il tempo sembra fermarsi, come nella morte.

Rimanemmo fissati, Silvia ed io, dentro quell'urlo muto in cui si fermò ogni cosa. Con gli occhi spalancati e nuovi guardavamo la pistola di un killer accanto a noi, che era appena sceso da una mercedes gialla dentro la quale si scorgeva la faccia anch'essa ferma e fissata in una maschera di un ragazzo che doveva avere più o meno la nostra età. Il killer, noi ancora non lo sapevamo, si chiamava Aldo, Aldo Ercolano. Era il nipote di Nitto Santapaola e anche il suo braccio destro. Ma in quel momento il suo braccio destro era disteso e fermo, fissato nel gesto dell'uccidere… un giornalista, uno scrittore catanese. Non c'è neanche bisogno di dire il nome. Tutto fissato, come in un presepe. Tutto pietrificato. Tutto e tutti. Tutto e tutti, tranne Pippo Fava che scese dalla Renault cinque che stava parcheggiando... e venne verso di noi.  La pioggia continuava a cadere, ma come se fosse lontana. Non so spiegare... con la consistenza di un silenzio. Con la consistenza di quel silenzio irreale che si crea quando... quando nevica. Venne verso di noi e ci guardò. Ci guardò con una delicatezza terribile e infinita, ci guardò fissati in quello sguardo. In silenzio. Poi, quando gli parve che la pausa fosse quella esatta, né prima, né dopo, disse:
Carusi, voi non sapete quanto mi 'unchia la minchia a farimi ammazzari accussì.

Come una formula magica, quella frase ebbe il potere di scioglierci dal nostro urlo pietrificato. Più precisamente ebbe il potere di farci separare dai calchi in gesso, dalle sagome, di noi stessi rimaste ferme imbalsamate in un istante. Rimasero aggrappate l'una all'altra le nostre statue, la statua di Silvia e quella mia, mentre noi ci staccavamo dai nostri simulacri per uscire fuori dall'apparente. Potevamo guardarci da fuori come fossimo i nostri angeli custodi. Fuori di noi, noi ci guardavamo dall'esterno. Viaggiavamo fuori dai nostri corpi. Guardavamo il mondo da una terza posizione. Potevamo osservarci di spalle, di profilo, di fronte. Potevamo guardarci agire mentre stavamo fuori dalla storia. 

Silvia ed io avevamo cercato un passaggio attraverso i nostri corpi. Avevamo cercato sulla nostra pelle il buco attraverso cui risalire, nella nostra coscienza, fino al dolore originario che aveva ammazzato Arturo. Volevamo arrivare alla fonte di quel dolore, risalire all'origine, da dove era partito tutto. Da dove era partito tutto? Cosa c’era successo, cosa ci stava succedendo? Cosa era successo nella nostra città? Cercavamo l'origine e ci siamo ritrovati di fronte alla mano che uccideva Pippo Fava. Cosa poteva voler dire?

Scendemmo dalla SIMCA con lo sguardo imbalsamato, fissato al culmine del nostro amplesso e Fava ci disse: 
Mi fate compagnia? Ho finito le sigarette. Prima che mi uccidano... se non sono già morto, fatemi fumare.

Io lo so che doveva essere tutta un'allucinazione, che dovevano essere gli effetti deliranti di un accumulo di stress e anfetamine. Lo so. Non voglio farvi credere che davvero pioveva sangue in forma di note dal cielo. Lo so, lo so che non è così. Lo so che non può essere stato reale però... però era vero. Eravamo giunti di fronte a quel quadro che rappresentava la prima tappa del percorso che quella notte avremmo dovuto compiere.
Silvia ed io, come Dante, nel mezzo del cammino della nostra esistenza, accidentalmente, nella nostra città accidentale, iniziavamo il nostro cammino verso l'alba, accompagnati da uno scrittore di fine secolo, che da lì in poi avremmo chiamato Maestro, Guida, the Driver.

Da "Ballata per San Berillo"